I “testimoni oculisti” nel Grande vetro guardano guardare per esercitare l’azione del vedere. Infatti ciò che si vede nel Grande vetro è l’invisibile. Una nozione sfuggente la quale però ci ha abituato fin dal secolo scorso a misurarci con una concezione della materia emancipata dalla sua fisicità diretta per ritrovarci in ambiti appena sfiorabili, afferrabili solo nella misura in cui si sottraggono.

L’inframince duchampiano è forse la risposta più radicale all’attitudine di un’epoca che Gabrielle Buffet Picabia nel 1949 identificava con il tentativo di catturare il “non percepibile”.

Si può dire che il nostro secolo, quello degli Immateriaux di Lyotard, sviluppa, esasperandola, tale condizione al punto che non solo la valenza premonitrice delle visioni duchampiane ne risulta riaffermata, ovviamente, ma anche appare imprescindibile la necessità di nuovi sforzi per acuire lo sguardo nel quadro di una ginnastica visiva che possa essere ginnastica mentale. Ginnastica visiva perché si tratta di sperimentare modalità di “prolungamento” dell’occhio nel cuore di ciò che non si vede, dietro la bulimia visiva contemporanea, e ginnastica mentale perché si possano tracciare percorsi di senso sotto la pelle delle cose, entro la sostanza della loro impermanenza.

È tale tema ad attraversare il lavoro delle due artiste messe in dialogo. L’una percorre l’orlo vuoto del pieno e lì cerca il proprio patrimonio di segni; l’altra guarda a terra con indifferenza a raccogliere frammenti di opere altrui al limite della materialità e gettate fuori dall’uso, cioè dalla godibilità visiva dell’opera. 

Si tratta di due modalità di lavoro quasi antitetiche ispirate in un caso allo zelo di un’applicazione negligente affrancata dall’urgenza del fine, nell’altro al distacco parascientifico dell’osservazione ossessiva di un’ossessione. E altrettanto antitetiche sono le risposte formali, la prima articolata nella stratificazione di un sistema di segni disteso secondo il movimento elicoidale di una vite senza fine dove ogni segno sfugge continuamente nell’altro a svelare ciò che immediatamente non appariva, la seconda nelle modalità di un repertorio inventariale proprio dell’archivio e del laboratorio (non a caso Cabinet de regard) in cui domina il microscopio per far affiorare l’infinitamente piccolo.

In mezzo, tra la diversità delle due voci, la dilatazione del campo visivo e la pratica di un ritardo temporale: bisogna fermarsi per vedere meglio. Nel tempo sospeso di tale arresto si consuma un atto di fede: l’attesa che i segni rincorsi nella loro trasformazione possano condurre lungo il sentiero di ciò che c’è ma non esiste e che i frammenti di opere una volta seminati possano dar vita prima o poi a nuove opere, da aspettare con pazienza e con quella follia che è propria sempre della ragione poetica

 

Ermanno Cristini

 

 

Susanna Baumgartner. Nata a Monaco di Baviera, di nazionalità tedesca e svizzera, vive e lavora a Lugano e a Milano. Specializzata in terapeutica artistica, ha insegnato Storia e Modelli dell’Arte Terapia all’ABABO (Accademia di Belle Arti di Bologna) per il Biennio di Didattica dell’Arte; attualmente insegna al CSIA di Lugano. Si interessa di filosofia, letteratura e musica, creando o collaborando a progetti e libri d’arte. Ha esposto in varie gallerie o musei come la Galleria Toselli, Nowhere gallery, Assab One a Milano, Kunstraum Leccese-Sprüth a Colonia, MADEINBRITALY a Londra, Kunstraum t27 a Berlino, Museo Cantonale d’Arte a Lugano. È autrice dei libri d’artista Eventi a Venire e Resto.

 

Microcollection. Elisa Bollazzi nasce a Gallarate, vive e lavora a Busto Arsizio. Nel 1990 dà vita al Museo Microcollection alla Biennale di Venezia dove sottrae all’oblio, quasi per caso, frammenti di un’opera di Anish Kapoor finiti accidentalmente per terra. Ora Microcollection conta quasi un migliaio di frammenti di opere di artisti italiani e internazionali tra cui Boltanski, Buren, Cragg, Fabro, Paolini, etc.. Queste microparticelle rappresentano l’intuizione di una nuova forma di creazione e sono visibili al microscopio durante i cosiddetti Cabinets de regard in mostre  in gallerie e musei in Italia e all’estero, tra cui Dreiviertel, Berna, la Triennale di Milano, l’Università di Toronto, ArtHelix Gallery, Brooklyn, MANN Museo Archeologico Nazionale, Napoli, Museo delle Scienze Muse, Trento, CDLA Centre des Livres